L’idea per questo post mi è venuta leggendo un recente articolo apparso su Il Sole 24 Ore nel quale vengono descritte alcune iniziative che il mondo della moda ha intrapreso per ridurre il suo impatto climatico. Non sempre però dietro a queste iniziative c’è una reale sostanza.
L’articolo de Il Sole 24 Ore ricorda che i tessuti moderni fanno un grande uso di filati sintetici ricavati dal petrolio. Da qui nasce l’esigenza di trovare filati alternativi che riducano le emissioni di gas serra e – in taluni casi – possano essere addirittura utilizzati per “sequestrare” una parte della CO2 prodotta da altri processi industriali.
Da consumatore, credo che una prima e rapida risposta a questo problema si potrebbe ottenere leggendo con più attenzione le etichette poste sugli abiti che acquistiamo, privilegiando quelli che utilizzano tessuti di origine naturale. Inoltre sarebbe preferibile – sia per il clima che per il nostro portafoglio – comprare pochi vestiti di buona qualità, evitando di riempire gli armadi di abiti poco utilizzati, destinati a finire nel cassonetto dei rifiuti.
Probabilmente molti riterranno che la mia posizione sia eccessivamente “pauperistica”. Per chi non fosse disposto a rinunciare all’acquisto compulsivo di nuovi abiti, c’è la soluzione ideata da qualche genio del marketing:
“comprate nuovi abiti che contengano fibre sintetiche che siano state prodotte rimuovendo anidride carbonica dall’ambiente e così potrete soddisfare le vostre pulsioni modaiole ed essere contemporaneamente in pace con la vostra coscienza climatica”
Confesso che certe proposte commerciali fanno scattare in me il sospetto di essere di fronte a spudorate azioni di greenwashing. Il sospetto diventa ancora più forte quando si scopre che gran parte delle fibre sintetiche utilizzate nei tessuti sono prodotte riciclando il PET (PoliEtilene Tereftalato) proveniente dagli imballaggi (tipicamente bottiglie o altri contenitori per alimenti).
Parliamo di numeri molto grandi perché il PET usato – a livello mondiale – per la produzione di filati è annualmente superiore ai 20 milioni di tonnellate (dato 2016). Se invece di essere riciclato nei filati, questo PET fosse incenerito produrrebbe una emissione pari a circa 50 milioni di tonnellate di CO2 (valore da confrontare con le emissioni globali di CO2 legate all’utilizzo di combustibili fossili che sono dell’ordine di 36 miliardi di tonnellate all’anno).
Per cercare di capire di più, ho analizzato alcune delle proposte attualmente in campo per ridurre le emissioni di gas serra legate alla produzione di tessuti. In particolare, l’articolo del Sole 24 Ore fa l’elenco di un certo numero di società che, in giro per il mondo, stanno lavorando per realizzare filati sintetici partendo dall’anidride carbonica.
Idealmente bisognerebbe realizzare qualcosa di simile a quello che accade nel processo di fotosintesi clorofilliana, ma questo non lo sappiamo fare. Molte iniziative industriali sfruttano processi naturali e fissano la CO2 utilizzando piante, alghe o batteri fotosintetici. I prodotti di sintesi forniti da questi organismi vengono poi trasformati per ricavare i componenti chimici di base con cui produrre i nuovi filati.
Idealmente queste attività potrebbero essere pensate come una sorta di agricoltura 2.0 che, in linea di principio, potrebbe essere realizzata anche in ambienti diversi rispetto ai tradizionali campi coltivati, incluse talune aree industriali dismesse. In tal modo si eviterebbe di entrare in conflitto con le tradizionali coltivazioni agricole, riservando i terreni più fertili alla produzione di cibo.
Si tratta di iniziative certamente interessanti, ma nessuna – almeno fino ad oggi – ha dimostrato di poter diventare veramente competitiva, né in termini di costi, né soprattutto per quanto riguarda la quantità di prodotto finale che sarebbe in grado di fornire (ricordo che l’industria tessile usa annualmente oltre 20 milioni di tonnellate di PET).
Un approccio alternativo è quello puramente chimico che propone di usare la CO2 come materia prima per produrre filati sintetici. Per chi ha un minimo di confidenza con la chimica, la cosa appare strana, al limite del “millantato credito” e se avete la pazienza di seguirmi, vi spiego perché.
Il PET è un polimero formato da una molecola di base (formula bruta C10H8O4) che ha una massa pari a 192 unità atomiche (u.a.). Se produciamo questa molecola usando anidride carbonica potremo usare al massimo 2 molecole di CO2 (ciascuna di massa molecolare pari a 44 u.a.) per ogni molecola di prodotto finito. In pratica meno del 46% (in peso) del polimero finale sarà costituito dagli atomi provenienti dalle 2 molecole di CO2 che hanno partecipato alla reazione, mentre tutto il resto dovrà essere fornito sotto forma di reagenti aggiuntivi che – al momento – vengono prodotti partendo dal petrolio (nel conto andrebbe messa anche l’energia spesa per far avvenire la reazione e per purificare i prodotti finali di reazione, energia che ha un certo “costo” in termini di emissioni di gas serra).
Quando il PET così prodotto finisce in un inceneritore, ogni molecola base emette 10 molecole di CO2 di cui solo 2 provenienti dall’operazione di sequestro effettuata al momento della produzione, mentre le altre 8 molecole di CO2 corrispondono ai materiali di origine fossile utilizzati per completare il processo produttivo.
In caso di combustione, il PET prodotto per via chimica utilizzando CO2 e quello “tradizionale” mostrano solo una minima differenza rispetto alla quantità di CO2 di origine fossile rilasciata nell’atmosfera
In linea di principio si potrebbe pensare di ricavare dalla CO2 anche i rimanenti 8 atomi di carbonio presenti nella molecola di base del PET. Ammesso (e non concesso) di trovare i processi chimici in grado di realizzare questa sintesi, dovremo comunque aggiungere una grande quantità di idrogeno (H2) sia per fissarlo agli atomi di carbonio (6 atomi di idrogeno per ogni molecola base di PET prodotta) che per rimuovere – sotto forma d’acqua (H2O) – l’eccesso di ossigeno portato dalle molecole di CO2 (16 atomi di ossigeno per ogni molecola base di PET prodotta). L’enorme quantità di energia necessaria per produrre l’idrogeno dovrebbe essere fornita da fonti rinnovabili.
A mio avviso, usare espressioni ambigue che facciano intendere di poter produrre PET per via chimica partendo solo dalla anidride carbonica è una forzatura, utile solo per attrarre l’interesse di consumatori poco ferrati nella chimica, ma attenti ai problemi climatici (e di qualche finanziatore un po’ avventato).
Quanto al processo chimico da utilizzare per produrre il PET utilizzando 2 molecole di anidride carbonica per ogni molecola di base del polimero, va detto che esiste, ma non è affatto banale da realizzare.
Nel sistema di produzione “tradizionale“ (vedi figure seguenti), la molecola di base del PET si ottiene facendo reagire 2 componenti: l’acido tereftalico ed il glicole etilenico. L’acido tereftalico si ricava – a sua volta – ossidando p-xilene (si legge para-xilene) che è un componente del petrolio o del catrame.
Un processo alternativo per la formazione dell’acido tereftalico fa uso di anidride carbonica al posto dell’ossigeno, ma – per essere realizzato – deve partire da un componente di base formato da un anello benzenico i cui idrogeni di posizione 1 e 4 sono sostituiti da gruppi legati molto debolmente. Al posto dei gruppi metilici (CH3) che ci sono nel p-xilene si usano composti del boro.
Si tratta di un processo chimico complesso che – fin qui – è stato dimostrato solo sulla scala di laboratorio e che è ben lungi dall’avere superato la prova di fattibilità, soprattutto per produzioni di grande scala.
Anche se l’articolo apparso su il Sole 24 Ore parla ottimisticamente di “Oltre il riciclo“, probabilmente ancora per molti anni continueremo ad indossare abiti al cui interno si troveranno fibre di PET ottenute riciclando le bottiglie dell’acqua minerale o altri imballaggi.
Recentemente si stanno sperimentando nuovi impianti in grado di riciclare anche il PET contenuto nei tessuti. Se queste tecnologie si dimostreranno affidabili, si amplierà significativamente il ciclo di vita di questo materiale.
Chi volesse contribuire al raggiungimento della neutralità climatica, oltre ad evitare gli acquisti di abiti inutili, dovrebbe fare più attenzione al riciclo delle bottiglie e degli altri prodotti realizzati con PET. Oggi il tasso di recupero di tali materiali arriva fino a circa il 60%, ma ci sono ancora ampi margini di miglioramento.
Ricordando che ogni bottiglia di PET riciclata è una bottiglia in meno che si disperde nell’ambiente o che viene bruciata negli inceneritori.
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