L’attuale crisi energetica ha riacceso la discussione sull’estrazione del gas naturale in Italia. Benché le riserve italiane non siano particolarmente consistenti, se oggi avessimo conservato una capacità di estrazione simile a quella che c’era in Italia 20 anni fa potremmo contare su un contributo energetico essenziale per superare le (temporanee) difficoltà legate alla riduzione delle forniture di gas russo. Ma le estrazioni di combustibili fossili creano anche significativi problemi ambientali.
Le stime correnti sulle riserve italiane di gas naturale ammontano a circa 100 miliardi di metri cubi sicuri, valore che potrebbe salire a 300-400 miliardi di metri cubi se si tiene conto anche delle riserve “probabili“. Considerato che l’Italia consuma annualmente circa 75 miliardi di metri cubi di gas metano, le riserve italiane sono ben poca cosa rispetto alle esigenze complessive del Paese, ma se avessimo conservato la capacità potenziale di estrazione che c’era in Italia 20 anni fa, (circa 15 miliardi di metri cubi all’anno contro il valore attuale che corrisponde a 3-4 miliardi di metri cubi all’anno) oggi potremmo disporre di una quantità di gas molto utile per affrontare il prossimo inverno senza dover introdurre particolari forme di razionamento energetico.
La prima ovvia osservazione (che sfugge a molti “sovranisti” energetici italiani) è che se dal 2000 in poi avessimo continuato a estrarre gas naturale con lo stesso ritmo del 1998 (circa 20 miliardi di metri cubi all’anno), oggi le riserve italiane (sicure + probabili) si sarebbero già esaurite.
La scelta di ridurre – dal 2000 in poi – le estrazioni di gas naturale in Italia fu presa sulla base di 3 principali motivazioni:
- La possibilità di acquistare metano a prezzo molto vantaggioso dalla Russia che 20 anni fa iniziò la sua penetrazione di massa nel mercato energetico europeo con le conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti. All’inizio di questo secolo, l’effetto calmieratore che le forniture russe hanno esercitato sul prezzo del gas ha fortemente ridotto la convenienza economica degli investimenti dedicati alla ricerca di nuovi giacimenti in Italia.
- La consapevolezza che, a meno di nuove scoperte inaspettate, i giacimenti italiani non potevano fornire una quota percentualmente rilevante dei consumi nazionali e che sarebbe stato comunque meglio mantenere una certa quantità di risorse strategiche, da utilizzare solo in caso di estremo bisogno.
- La pressione dei movimenti ambientalisti preoccupati per l’impatto dei pozzi di estrazione (decisamente più alto nel caso del petrolio, ma non del tutto trascurabile anche quando si estrae gas naturale) e per i problemi di natura sismica che si possono generare a causa delle estrazioni e della eventuale reimmissione nel sottosuolo delle acque reflue separate dai combustibili fossili dopo la loro estrazione.
Qualcuno potrebbe chiedersi perché, pur riducendo sensibilmente i livelli di estrazione, non abbiamo mantenuto costante la nostra capacità estrattiva, in modo da riattivarla quando – come sta succedendo in questi mesi – ce ne fosse stato un urgente bisogno.
Per rispondere a questa domanda bisogna ricordare che i pozzi per l’estrazione del gas naturale non sono come le botti del vino dove basta chiudere un rubinetto per bloccare il flusso. Per convincersene basta vedere le immagini che in questi giorni arrivano dalla Russia dove vengono quotidianamente bruciati milioni di metri cubi di gas che vengono estratti, ma non sono più esportati in Occidente.
Gli impianti di estrazione del gas sono strutture complesse che, una volta avviate, producono gas fino all’esaurimento del giacimento. Di fatto in questi anni abbiamo assistito al progressivo esaurimento dei giacimenti già messi in produzione e non abbiamo investito a sufficienza per sfruttare i nuovi giacimenti, a cominciare da quelli che sono localizzati nel Canale di Sicilia. D’altra parte avrebbe avuto poco senso installare in mare nuovi pozzi di estrazione che rischiavano di non poter lavorare a causa della combinazione di una legislazione statale sempre più restrittiva e di prezzi del gas troppo bassi per coprire i costi di estrazione.
Le imprese che si occupano di estrazione non fanno beneficenza e nessuno costruisce un impianto industriale se poi non lo può utilizzare. Lo Stato avrebbe dovuto sostenere con adeguati fondi pubblici gli investimenti strategici necessari per poter attivare in tempi stretti – ove necessario – lo sfruttamento di nuovi giacimenti. Questo in Italia non è mai accaduto, anche perché un eventuale finanziamento pubblico alle attività di trivellazione avrebbe sollevato le proteste di frotte di ambientalisti e di altri “indignati“.
Il colpo di grazia al sistema nazionale di estrazione del gas naturale è stato dato dal Governo Conte I (Lega e M5S) che nel 2019 ha imposto serie limitazioni alle attività di trivellazione, bloccando completamente la ricerca di nuovi giacimenti.
Il mantra ufficiale era che le riserve italiane erano più che sufficienti per essere utilizzate nei momenti critici come “riserve strategiche“. Oggi il momento critico è arrivato, ma scopriamo che non è così semplice riattivare gli impianti di estrazione del gas. Servono investimenti onerosi, ma il vero grosso problema è che i tempi tecnici necessari per la realizzazione degli interventi sono troppo lunghi per rispondere all’emergenza energetica del prossimo autunno-inverno.
Il rischio è che il rilancio delle estrazioni di gas naturale in Italia (su cui il Governo Draghi si è mosso con la massima celerità possibile) non potrà produrre effetti significativi prima di almeno 1 anno, quando si spera che almeno la fase più acuta della crisi energetica sarà già stata superata.
In conclusione, è inutile – almeno nel breve periodo – discutere di trivelle sì o trivelle no. L’unica cosa da fare sarà quella di ridurre la temperatura e le ore di accensione dei nostri impianti di riscaldamento.
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