Una dieta ricca di alimenti di origine animale ha una impronta climatica decisamente più elevata rispetto ad una basata prevalentemente su vegetali. Anche senza diventare vegani, possiamo contribuire alla riduzione delle emissioni di gas serra ricalibrando la nostra dieta in modo da dare meno spazio ai cibi di origine animale. Un aiuto in questa direzione potrebbe venire anche dal modo con cui vengono gestiti gli allevamenti, anche se non mancano i problemi.
I grandi temi del clima e dell’alimentazione sono strettamente interconnessi tra loro. Complessivamente la produzione del cibo contribuisce a circa 1/4 del totale delle emissioni di gas serra. Il grafico seguente (basato su un lavoro pubblicato su Science nel 2018 da J. Poore e T. Nemechek) evidenzia la forte variabilità esistente tra le emissioni di gas serra associate ai diversi tipi di cibo:
Gli allevamenti di bestiame e di pesci contribuiscono a circa la metà delle emissioni di gas serra legate alla produzione del cibo (il dato si ottiene sommando le emissioni dirette, quelle per la produzione di vegetali destinati alla produzione di mangimi animali e all’utilizzo del suolo):
Di fronte a questi dati, c’è chi sceglie di adottare soluzioni radicali, rinunciando a qualsiasi cibo di origine animale (e anche al cioccolato fondente!) e chi sceglie invece una via intermedia, limitando l’uso di cibi ad alto impatto climatico. Va comunque ricordato che una dieta basata principalmente su carni rosse – oltre a far male al clima – nuoce gravemente anche alla salute di chi la pratica.
Un’ulteriore possibilità è quella di ottimizzare i metodi di allevamento, riducendone l’impatto climatico. In particolare, uno studio apparso recentemente su Nature Food affronta il tema della formulazione dei mangimi che oggi sono utilizzati negli allevamenti di bestiame e di pesce.
Questi mangimi assorbono circa 1/3 dell’intera produzione mondiale di cereali ed 1/4 del pescato. Non sempre si tratta di prodotti di elevata qualità, ma – se opportunamente trattati – potrebbero servire per alimentare circa 1 miliardo di persone. A questo punto si porrebbe il problema di cosa usare per alimentare gli animali degli allevamenti: la proposta è quella di utilizzare gli scarti delle produzioni agricole e dell’industria alimentare.
In fondo – direte voi – non c’è nulla di nuovo rispetto a quanto facevano una volta le famiglie contadine che allevavano il maiale utilizzando gli scarti di casa. Ma un conto è gestire un singolo animale ed un conto è produrre il mangime per un allevamento intensivo.
Gli Autori discutono i dati dimostrando che la loro ipotesi non è campata per aria: si potrebbe continuare ad allevare bestiame e pesci, liberando ingenti risorse per l’alimentazione umana ed usando scarti di lavorazione che oggi sono poco utilizzati e – quando va bene – finiscono per contribuire alle cosiddette “biomasse“.
C’è però qualche problema su cui bisognerebbe fare chiarezza. In particolare:
- Ricordiamo tutti la storia della “mucca pazza“. Questa epidemia è stata scatenata dall’uso di scarti della lavorazione di carni ovine che erano stati miscelati con cereali all’interno dei mangimi per bovini. In generale, quando si parla di scarti di lavorazione bisogna stare molto attenti alla tracciabilità dei prodotti che vengono utilizzati, evitando assolutamente che sotto la generica voce degli “scarti” finisca di tutto, anche materiali potenzialmente pericolosi.
- La proposta mette in evidenza i limiti che ci sono nella produzione delle cosiddette “biomasse“. Sotto questa voce generica finisce qualsiasi materiale di origine vegetale o animale che non possa essere utilizzato in altro modo. A questo punto, usando processi di fermentazione o di gassificazione, è possibile estrarre dalle biomasse metano, syngas o altri prodotti organici. Ovviamente se i materiali che oggi finiscono nelle biomasse dovessero trovare una utilizzazione nei mangimi per allevamento, si ridurrebbero le possibilità di ricavare combustibili o altri materiali in modo rinnovabile. In altre parole, c’è sempre una contrapposizione tra una maggiore produzione di alimenti e quella di energie bio.
Lascia un commento