Bistecche “coltivate”: riducono le emissioni di gas serra, ma ci sono tanti altri problemi

Oggi è solo un prodotto di nicchia, ma la carne ottenuta coltivando in vitro cellule staminali viene considerata da molti come una valida futura alternativa rispetto alla carne tradizionale ottenuta macellando bovini. Oltre a ridurre l’importante impatto climatico degli allevamento intensivi, questo nuovo approccio risponde – sia pure solo in parte – alle esigenze di chi non vuole usare gli animali come fonte di cibo. Ma non sono tutte “rose e fiori“.

Sappiamo che una dieta ricca di carne rossa, oltre a presentare potenziali rischi per la salute di chi la pratica, produce un impatto molto significativo in termini di emissioni di gas serra. Nel corso degli ultimi anni la cosiddetta carne coltivata si sta progressivamente affermando come una potenziale alternativa per chi – ogni tanto – vorrebbe mangiarsi una bistecca, ma è comunque attento agli aspetti climatici.

In linea di principio, la carne coltivata dovrebbe ridurre drasticamente il ricorso agli allevamenti intensivi di bovini. Le cellule di partenza (cellule staminali estratte dal muscolo di bovini) hanno ovviamente una origine animale, ma poi si potrebbe pensare di riprodurle indefinitamente in vitro senza che sia necessario un ulteriore sacrificio di animali. La riproduzione avviene in un bioreattore e gli elementi nutritivi necessari per la riproduzione delle cellule sono di origine vegetale. Per questo si parla talvolta di “carne prodotta partendo dalle piante“. Questi prodotti non vanno confusi con i preparati vegani a base di soia che “simulano” la consistenza della carne.

Pubblicità di un hamburger prodotto con carne coltivata (crediti: immagine Impossible Foods)

Due articoli apparsi recentemente fanno il punto sullo sviluppo delle tecnologie legate alla produzione di carni coltivate, mettendo in evidenza una serie di aspetti problematici che sono poco conosciuti dall’opinione pubblica:

  1. C. J. K. Wong et al. “Brief exposure to directionally-specific pulsed electromagnetic fields stimulates extracellular vesicle release and is antagonized by streptomycin: A potential regenerative medicine and food industry paradigm“, Biomaterials, 287 (2022) 1216658.
  2. D. Mason-D’Croz et al. “Ethical and economic implications of the adoption of novel plant-based beef substitutes in the USA: a general equilibrium modelling study“, The Lancet Planetary Health, 6 (2022) E658.

Il primo aspetto rilevante riguarda i metodi che attualmente vengono utilizzati per stimolare l’accrescimento in vitro delle cellule staminali di origine bovina. Un metodo largamente utilizzato è quello di fare uso di siero fetale bovino che viene ricavato macellando vacche da latte gravide. L’alternativa è quella di fare uso di farmaci in grado di stimolare l’accrescimento cellulare. Qualunque sia la scelta adottata, non sembra che gli attuali metodi di sintesi soddisfino pienamente i criteri di sostenibilità e sicurezza che molti danno per scontati. Inoltre questi additivi incidono pesantemente sui costi di produzione.

C’è da dire che il primo articolo citato propone un metodo di stimolazione della crescita cellulare basato sull’utilizzo di campi magnetici che non fa uso né di prodotti di origine animale, né di farmaci. Non sono un esperto del settore e non sono in grado di esprimermi sulla validità della proposta. Qui mi limito a prendere atto del fatto che la riproduzione veloce e senza la necessità di particolari additivi delle cellule staminali rappresenta, al momento, uno dei “colli di bottiglia” delle tecnologie di sintesi delle carni.

Il secondo articolo analizza il possibile impatto etico ed economico di una crescente diffusione delle carni coltivate nel mercato degli Stati Uniti. Lo studio conferma che la diffusione di tali carni avrebbe un impatto positivo in termini di riduzione delle emissioni di gas serra, portando anche ad una sostanziale riduzione del numero di bovini allevati in Nord-America.

Dal punto di vista socio-economico c’è da considerare che un tale processo produrrebbe dei costi sociali fortemente sbilanciati: si calcola che sparirebbero fino a quasi la metà degli attuali 1,5 milioni di posti di lavoro legati al settore dell’allevamento negli Stati Uniti. Solo in minima parte questi posti di lavoro sarebbero sostituiti dalle nuove posizioni create dalle aziende che si occuperanno della produzione di carne coltivata (questi processi saranno largamente automatizzati).

Come ogni trasformazione, anche il passaggio dalle carni tradizionali a quelle coltivate potrà comportare costi sociali distribuiti in modo disomogeneo tra la popolazione e – nel periodo transitorio – sarà necessario adottare politiche pubbliche di sostegno per le categorie professionali più a rischio.

In conclusione, leggiamo spesso annunci che propagandano le innovazioni tecnologiche come se fossero la panacea di tutti i mali. Da scienziato e da tecnologo credo che sia bene andare a verificare fino in fondo la fondatezza di tali annunci. Senza preconcetti o preclusioni verso l’innovazione, bisogna comunque “tenere i piedi per terra” e non confondere gli annunci con la realtà.

Se la ricerca ci consentirà di superare gli attuali limiti, la produzione di carni tramite bio-reattori (partendo da cellule staminali) potrebbe diventare una valida alternativa rispetto ai metodi di allevamento tradizionali. Ma – al momento – non siamo ancora certi che tale passaggio possa effettivamente avvenire.

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