Un gruppo di ricerca dell’Università di Cambridge (UK) ha dimostrato che un farmaco attualmente utilizzato per alcune malattie del fegato può funzionare per proteggere le cellule umane dal virus SARS-CoV-2. Il farmaco funziona bloccando i recettori ACE2 ovvero la “porta d’ingresso” che il virus utilizza per infettare le cellule. Il farmaco non è protetto da brevetto e può essere facilmente prodotto con costi contenuti.
La rivista Nature ha recentemente pubblicato un articolo nel quale si presentano i risultati di uno studio sviluppato presso l’Università di Cambridge (UK). La ricerca è stata stimolata dalla osservazione casuale che un farmaco correntemente usato per la cura di talune patologie del fegato produce un effetto inibitore per i recettori ACE2 (punto d’entrata nelle cellule del virus SARS-CoV-2). Il farmaco, noto con l’acronimo UDCA (in italiano, acido ursodesossicolico) non è più coperto da brevetto e può essere prodotto a costi decisamente contenuti.
L’effetto del farmaco è quello di “bloccare” i recettori ACE2 impedendo al virus di entrare nella cellula infettandola. Gli esperimenti fatti fin qui in vitro, su modelli animali ed anche su alcuni volontari umani hanno dimostrato l’efficacia del farmaco, indipendentemente dalla variante virale considerata.
Il fatto di lavorare con un farmaco già approvato (ed ampiamente utilizzato) per la somministrazione ad esseri umani (sia pure per una patologia completamente diversa) ha drasticamente ridotto i tempi di sviluppo dello studio poiché non è stato necessario condurre le sperimentazioni necessarie per valutare eventuali controindicazioni o altri effetti collaterali.
Uno studio statistico condotto su un gruppo di pazienti che ricevevano l’UDCA per la cura di patologie epatiche ha dimostrato che in questi pazienti c’è stata una minore incidenza sia del numero di contagi, sia – in caso di contagio – della comparsa delle complicanze più gravi.
Ovviamente, prima di poter proporre l’UDCA come una terapia preventiva contro la Covid-19 (specialmente per i soggetti più fragili, soprattutto per quelli che reagiscono poco ai vaccini) saranno necessari altri studi, ma i risultati fin qui ottenuti sono stati molto incoraggianti.
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