Anche se i danni provocati dal riscaldamento globale sono ormai evidenti, rimangono seri dubbi sulla possibilità che – a livello mondiale – si riescano a raggiungere gli obiettivi di de-carbonizzazione stabiliti per il 2050. Preoccupa in particolare l’utilizzo ancora esteso del carbone che, tra i combustibili di origine fossile, è quello più impattante sia dal punto di vista climatico che da quello ambientale. Un recente articolo apparso su Nature Climate Change fa il punto della situazione e evidenzia le principali criticità da affrontare.
Nature Climate Change ha recentemente pubblicato un articolo nel quale si analizza l’utilizzo del carbone da parte delle principali economie mondiali e si cerca di capire se sia possibile raggiungere, entro il 2050, una effettiva neutralità climatica:
Bi, S.L., Bauer, N. & Jewell, J. Coal-exit alliance must confront freeriding sectors to propel Paris-aligned momentum. Nat. Clim. Chang. (2023). https://doi.org/10.1038/s41558-022-01570-8.
Benché il carbone sia – tra i combustibili fossili – quello di gran lunga più dannoso sia dal punto di vista climatico che da quello ambientale, molti Paesi – grandi e piccoli – sono riluttanti ad abbandonarne l’uso, avviando efficaci programmi di de-carbonizzazione.
Anche l’Italia, nel corso della recentissima crisi energetica, ha messo in soffitta i programmi di chiusura o di trasformazione delle vecchie centrali termolettriche alimentate a carbone e non ha esitato ad aumentare considerevolmente i consumi di carbone per porre rimedio al calo di energia prodotta dalle centrali idroelettriche a causa della siccità. Abbiamo assistito ad un classico caso di “cane che si morde la coda” aumentando il consumo di carbone per compensare il calo di energia idroelettrica dovuto agli effetti del riscaldamento globale.
Ma – come notano Bauer e co-autori – anche se riuscissimo ad eliminare rapidamente l’uso del carbone per produrre energia elettrica, l’utilizzo del carbone potrebbe continuare a permanere su livelli molto alti. Infatti non possiamo dimenticare che oggi il carbone è una materia prima essenziale per le industrie siderurgiche, i cementifici e molte altre industrie chimiche (ricordo che ancora oggi il cosiddetto syngas viene spesso prodotto combinando acqua e carbone ardente).
Se osserviamo le cose dal punto di vista globale, balza agli occhi il ruolo della Cina che – da sola – utilizza oltre la metà del carbone che viene attualmente impiegato a livello mondiale. Anche se la Cina ha avviato imponenti programmi per lo sviluppo delle energie rinnovabili (basti pensare al ruolo svolto come produttore di pannelli solari o batterie al litio) molti di questi programmi si avvalgono del carbone come fonte energetica primaria. Anche qui siamo di fronte ad un evidente paradosso: la Cina usa ingenti quantità di carbone per produrre i dispositivi che sono essenziali per utilizzare le energie rinnovabili. Se tenessimo conto di questo fatto, l’impronta carbonica di un’auto elettrica o di un impianto fotovoltaico sarebbe decisamente più alta rispetto a quanto viene stimato.
Le scelte della Cina rispetto all’utilizzo del carbone condizioneranno decisamente le sorti della battaglia contro il riscaldamento globale. Paradossalmente: se tutti gli altri Paesi abbandonassero l’uso del carbone, ci sarebbe un calo dei prezzi del carbone che potrebbe incentivare la Cina a continuare ad utilizzarlo.
Tutte queste considerazioni non tengono conto degli elementi di frizione che attualmente complicano il difficile rapporto tra Cina e Stati Uniti. Se la crisi di Taiwan dovesse degenerare, sarebbe estremamente difficile arrivare ad accordi condivisi che possano contribuire ad accelerare il processo globale di de-carbonizzazione. Di fronte a tali problemi, i semplici modelli econometrici discussi nell’articolo apparso su Nature Climate Change potrebbero rivelarsi una pure esercitazione accademica. Speriamo che non sia così.
Lascia un commento