La legge che vieta la produzione e la commercializzazione della carne coltivata (ottenuta dalla coltivazione di cellule staminali di origine animale) rappresenta – a mio avviso – un pessimo esempio di come il Parlamento possa legiferare sulla base di pregiudizi, al solo scopo di accontentare qualche lobby potente. Sul tema della carne coltivata ho già scritto a suo tempo, mettendo in evidenza tutti i problemi ancora non risolti di tale tecnologia. Si tratta di una tecnologia in divenire, potenzialmente molto utile, ma ancora non sappiamo se e quando sarà in grado di trasformarsi in una reale opportunità. Ciò premesso, vietare di vendere un prodotto che non c’è potrà servire a blandire gli allocchi, ma produrrà come unico risultato un vincolo arbitrario sulla ricerca. Un perdita per il futuro del Paese, solo per accaparrarsi qualche voto in più oggi.
La tecnica che è stata proposta per la coltivazione della carne partendo da cellule staminali di origine animale funziona sulla base di principi che non sono dissimili rispetto a quelli impiegati per produrre i tessuti umani utilizzati per la cura dei grandi ustionati. L’idea è la stessa, anche se i due campi applicativi sono molto distanti tra di loro.
Nessuna persona di buon senso oggi si sognerebbe di vietare l’uso in campo medico dei tessuti ottenuti partendo da cellule staminali (per nostra fortuna il Ministro/cognato è stato piazzato all’Agricoltura invece che al Ministero della Salute).
Nel caso dell’utilizzo per scopi alimentari il quadro è molto diverso. C’è stata da parte di alcune associazioni di categoria una presa di posizione aprioristicamente contraria, basata anche su affermazioni palesemente false (ad esempio, farebbe male all’ambiente) o su ovvietà trasformate in espressioni altamente ansiogene (“prodotto in un bio-reattore !”):
In realtà, il vero motivo della campagna di disinformazione avviata nei confronti delle (futuribili) nuove tecnologie alimentari è legato al timore che l’arrivo sul mercato della carne prodotta coltivando cellule staminali (che spesso nelle cronache quotidiane viene chiamata “di sintesi“) possa scardinare il sistema tradizionale della produzione di carni animali, già messo a dura prova dal cambiamento delle abitudini alimentari che stiamo osservando soprattutto tra le giovani generazioni.
Una maggiore attenzione per la propria salute e le preoccupazioni di carattere ambientale e climatico stanno spingendo molte persone a eliminare o quantomeno a ridurre considerevolmente il ruolo della carne (soprattutto rossa) nella loro dieta.
L’arrivo della carne coltivata rischia di dare il colpo di grazia al settore, mettendo a rischio consolidati interessi economici e molti posti di lavoro. A onor del vero, non dobbiamo dimenticare che gli allevamenti (soprattutto quelli intensivi) e gli stabilimenti di macellazione e lavorazione delle carni sono ormai diventati assai poco attrattivi per i lavoratori italiani e sopravvivono solo grazie al contributo dei lavoratori immigrati.
Ma il vero problema è che oggi non siamo ancora sicuri che le carni coltivate possano diventare una reale alternativa rispetto alle carni tradizionali. Ci sono ancora diversi problemi da risolvere, primo fra tutti quello di garantire una sistema di produzione realmente sostenibile dal punto di vista dei costi complessivi. In altre parole, un conto è produrre fibre di carne animale in laboratorio ed un conto è trasferire tale processo ad una filiera industriale che sia in grado di operare con continuità garantendo gli indispensabili livelli di sicurezza.
Proprio per questo motivo, oggi la carne coltivata la potete mangiare solo in un numero limitatissimo di Paesi e anche i più entusiasti sostenitori dell’innovazione tecnologica potrebbero esprimere qualche riserva dopo aver assaggiato una insipida e costosissima polpetta fatta con fibre animali prodotte in laboratorio. In altre parole, la ricerca è ben avviata, ma è ancora molto lontana dall’aver prodotto risultati soddisfacenti.
Ciò non toglie che valga la pena di continuare a fare ricerca in questo settore perché – aldilà delle considerazioni legate al fatto che la carne coltivata può essere prodotta senza richiedere il sacrificio di animali – la sostituzione degli allevamenti intensivi con impianti per la produzione di carne coltivata produrrebbe grandi vantaggi sia dal punto di vista ambientale che da quello climatico.
Senza contare i vantaggi per la salute dei consumatori finali perché le carni prodotte dagli allevamenti intensivi contengono spesso residui di antibiotici e di altri farmaci che vengono somministrati massicciamente agli animali costretti a crescere in ambienti troppo densamente popolati.
Fino ad oggi le Autorità sanitarie europee non hanno ancora autorizzato la diffusione di alcun tipo di carne coltivata. Se l’autorizzazione verrà rilasciata in futuro, questo avverrà solo dopo una attenta verifica dei processi produttivi, con particolare attenzione alle procedure adottate per velocizzarne la produzione.
La legge approvata dal Parlamento italiano (con l’astensione di una larga parte delle forze di minoranza timorose di mettersi contro agli interessi lobbistici difesi da Coldiretti) vieta la produzione e la commercializzazione “senza se e senza ma“, aldilà di qualsiasi valutazione di tipo biologico, nutrizionistico o sanitario (valutazione che comunque non rientra tra i compiti del Parlamento, ma dovrebbe essere affidata ad Autorità indipendenti e competenti).
Tra l’altro la norma vieta esplicitamente anche di “produrre per esportare” con il chiaro intento di soffocare sul nascere il possibile sviluppo di una qualsiasi realtà industriale italiana che volesse far tesoro delle competenze in materia esistenti negli atenei italiani. Se in un futuro – più o meno lontano – la carne coltivata dovesse affermarsi a livello mondiale come un prodotto di largo consumo avremmo tarpato le ali alle aziende italiane, salvo poi metterci a piangere sul “predominio delle industrie straniere“.
Di fronte alle numerose critiche che gli sono arrivate, il Ministro/cognato ha affermato che la legge non blocca la ricerca. Formalmente è così, ma nella sostanza non si vede come le Università ed i Centri di ricerca italiani potranno continuare ad investire in attività di ricerca che – per legge – non potranno mai avere ricadute sul territorio italiano.
In estrema sintesi, abbiamo a che fare con una legge oscurantista, cosa che non sorprende considerata la matrice politica del Governo che l’ha generata. Ma – in termini concreti – è solo fuffa destinata a illudere i sodali del Ministro/cognato che i loro interessi economici saranno tutelati, indipendentemente da quanto potrà accadere nel resto del Mondo. Ma si tratta appunto di una illusione.
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