In un momento nel quale diversi Paesi stanno valutando la possibilità di aumentare l’utilizzo dell’energia nucleare sorge spontanea la domanda: “c’è abbastanza uranio per soddisfare le richieste future del settore?“. La risposta è probabilmente no, anche se la diffusione su larga scala delle centrali a fissione di IV generazione (a neutroni veloci) potrebbe cambiare profondamente la situazione. Le centrali a neutroni veloci possono sfruttare il combustibile nucleare in modo molto più efficiente rispetto alle centrali attuali. Inoltre possono essere alimentate utilizzando una vasta gamma di elementi e potrebbero addirittura rivelarsi utili per smaltire in modo pressoché definitivo una parte significativa delle scorie nucleari prodotte dai reattori a fissione di II e III generazione.
Quando si discute della costruzione di una nuova centrale nucleare si affrontano gli aspetti legati alla sicurezza dell’impianto e allo smaltimento delle scorie nucleari, dando quasi per scontato che l’approvvigionamento del “combustibile” nucleare non costituisca un particolare problema.
Uso l’espressione “combustibile” anche se – strettamente parlando – il termine non è corretto. Infatti all’interno di una centrale nucleare avviene un processo di fissione del nucleo (tipicamente si usa l’isotopo 235 dell’uranio, 235U), ma non avviene alcun processo di combustione. Il termine “combustibile” è comunque entrato nell’uso comune e va quindi inteso in senso lato.
La stragrande maggioranza degli impianti nucleari di II e III generazione funzionanti a livello mondiale sono alimentati utilizzando una miscela di isotopi di uranio che è stata “arricchita” per aumentare la concentrazione dell’isotopo 235. Il processo di arricchimento è indispensabile perché l’isotopo 235U è presente in natura con una concentrazione pari solo allo 0,7%, troppo bassa per garantire il funzionamento di una centrale nucleare (a meno che non si usino particolari configurazioni che sono state sperimentate in passato, ma che oggi sono state completamente abbandonate).
Complessi processi di separazione isotopica (comunemente chiamati “arricchimento“) vengono applicati all’uranio naturale (una miscela dei 3 isotopi 234U, 235U e 238U) fino a portare la concentrazione dell’uranio 235U a livelli che sono tipicamente compresi tra il 3 ed il 5%. La concentrazione può arrivare fino a circa il 20% quando il combustibile viene utilizzato per alimentare reattori di piccole dimensioni come quelli impiegati per la propulsione di mezzi navali.
La stima attuale delle riserve mondiali di uranio (dato 2021) è pari a circa 6 milioni di tonnellate. Come tutte le stime, oltre a non considerare i giacimenti che non sono ancora stati scoperti dipende abbastanza criticamente dai costi di estrazione che i produttori sono disposti a pagare (ci sono miniere dove i costi di estrazione sono particolarmente alti, tali da rendere conveniente l’estrazione solo quando i prezzi dell’uranio salgono oltre ad un certo livello).
Come si vede le riserve più consistenti di uranio si trovano in Australia (28% del totale) anche se l’ex repubblica sovietica del Kazakistan è il Paese più attivo a livello estrattivo contribuendo (dato del 2022) a poco più del 40% della produzione mondiale di uranio. Proseguendo con questo ritmo il Kazakistan esaurirà le sue riserve entro una quarantina di anni.
L’uranio estratto in Kazakistan finisce quasi tutto in Russia dove viene arricchito per essere successivamente venduto sotto forma di combustibile nucleare a numerosi Paesi. Anche molte nazioni europee fanno riferimento alla Russia per la fornitura del combustibile che alimenta le loro centrali nucleari e nessuno ha mai pensato di assoggettare tali importazioni a sanzioni (anche perché non sarebbe affatto facile sostituirle).
Paradossalmente qualcuno parla dell’energia nucleare come di uno strumento utile per affrancare l’Europa dalle forniture di gas russo. Va da sé che se l’Europa sostituisse le forniture russe di gas con le forniture – sempre russe – di combustibile nucleare, saremmo – come si dice a Roma – “da capo a dodici“.
L’Italia non appare nella tabella mostrata precedentemente, ma dispone di qualche modesta riserva di minerale uranifero localizzata nelle Alpi centro-occidentali. I progetti per la coltivazione di questi giacimenti sono stati completamente abbandonati dopo l’approvazione del referendum anti-nucleare del 1987.
Nel 2022 – a livello mondiale – sono state estratte circa 50 mila tonnellate di uranio, dato in leggero calo rispetto ai valori di 10 anni fa (una chiara indicazione della situazione di sostanziale stallo nel quale si trova attualmente il settore nucleare a livello mondiale).
Facendo un conto grossolano, procedendo con questo ritmo le riserve note di uranio si esauriranno nell’arco di circa 1 secolo. La stima è davvero “spannometrica” perché non tiene conto di alcuni elementi. In particolare:
- Se – come ipotizzato durante la recente Cop28 – si triplicasse la produzione di energia nucleare utilizzando le attuali tecnologie, le scorte di uranio si esaurirebbero nell’arco di 30 – 40 anni a partire da oggi (meno della durata nominale di una nuova centrale nucleare che attualmente si stima pari ad almeno 50 anni).
- La stima non tiene conto delle nuove scoperte minerarie che potrebbero avvenire nei prossimi decenni. Inoltre – siccome l’uranio è considerato un materiale strategico – non siamo sicuri che i numeri resi noti dai diversi Paesi corrispondano al vero e non siano stati falsati per motivazioni di natura geo-politica.
- Se effettivamente ci fosse un passaggio alle centrali di IV generazione il discorso cambierebbe in modo radicale perché le centrali a neutroni veloci – a parità di energia prodotta – fanno un uso molto più efficiente del combustibile nucleare. Inoltre possono “bruciare” – oltre all’uranio e al plutonio – molti altri elementi (attinidi) che con le centrali delle precedenti generazioni finivano nelle scorie da smaltire. Come abbiamo visto in un post precedente, le centrali di IV generazione, oltre ad aumentare l’efficienza energetica, riducono drasticamente il problema dello smaltimento delle scorie nucleari ed eliminano alla radice il problema del loro possibile utilizzo bellico.
Tornando al caso italiano, il nostro Paese non possiede riserve naturali di uranio sufficienti per sostenere una produzione nazionale di energia nucleare di livello significativo. Inoltre non abbiamo impianti industriali e laboratori di ricerca che possano sviluppare i processi di arricchimento isotopico: con l’andata in pensione dei fisici e degli ingegneri nucleari della mia generazione si sono perse definitivamente le poche competenze disponibili. Il recente tentativo di usare una parte dei fondi PNRR per far rinascere una filiera italiana dedicata alla separazione isotopica (che servirebbe per produrre non solo combustibili nucleari, ma anche radioisotopi per uso medicale) è fallito per la sostanziale mancanza di risorse umane.
Quasi del tutto inesistenti sono le competenze necessarie per il trattamento delle scorie nucleari (tema a cui dedicherò un prossimo post).
Risulta quindi abbastanza evidente che un eventuale rilancio dell’energia nucleare in Italia renderebbe il nostro Paese totalmente dipendente dall’estero sia per l’approvvigionamento dei combustibili nucleari, sia per il trattamento delle scorie.
Dotare l’Italia di tutte queste tecnologie richiederebbe tempo e forti investimenti che si aggiungono a quelli necessari per la costruzione delle centrali.
Prima di concludere volevo portare l’attenzione dei lettori su un tema che spesso passa inosservato, ma che – secondo me – è molto importante. In precedenza ho accennato al processo di arricchimento dell’uranio e al trattamento delle scorie nucleari, specialmente quelle prodotte dai reattori di II e III generazione. Questo ci introduce ad un tema strettamente correlato all’utilizzo pacifico dell’energia nucleare ovvero ai suoi potenziali usi in campo militare.
I sistemi di arricchimento dell’uranio servono per preparare il combustibile necessario per alimentare le centrali nucleari. I livelli di concentrazione da raggiungere sono relativamente bassi. Tuttavia se il processo viene spinto a livelli molto elevati (> 80%) si ottengono prodotti che possono avere un uso bellico.
Oggi la preparazione di uranio ad elevatissimo livello di arricchimento è il principale collo di bottiglia da superare per preparare un ordigno nucleare. In alternativa si può usare plutonio 239 che può essere estratto dalle barre di combustibile nucleare esaurito, ma anche questa è una tecnologia non facilmente accessibile.
Purtroppo anche le maggiori difficoltà tecnologiche si possono superare e le cronache internazionali sono piene di storie di Paesi che ufficialmente sono impegnati nello sviluppo dell’energia nucleare per scopi civili, ma che – sotto traccia – hanno sviluppato o stanno cercando di sviluppare armamenti nucleari. Forse ispirati dall’esempio della Corea del Nord, molti dittatori di Stati grandi e piccoli si sono convinti che possedere armi nucleari possa costituire una sorta di “assicurazione sulla vita“.
Questo ci fa capire quanto sia delicata e soggetta a possibili usi impropri la filiera utilizzata per la preparazione dei combustibili nucleari e per il trattamento delle scorie nucleari. Ci sono già troppi armamenti nucleari a questo mondo e non credo che una loro ulteriore proliferazione possa produrre qualcosa di buono. Anche questo aspetto andrebbero attentamente valutato quando si propone di triplicare l’utilizzo dell’energia nucleare a livello mondiale.
Questo è il secondo di una serie di post dedicati al possibile futuro dell’energia nucleare In Italia. Gli altri post sono:
I: le tecnologie per la produzione di energia elettrica
III: quanto costa realmente l’energia nucleare? Il caso della centrale del Garigliano
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