Oggi è arrivata la notizia dell’avvio dei lavori di smantellamento del “guscio” della centrale nucleare del Garigliano, un impianto che aveva prodotto energia elettrica dal 1964 al 1978. Nel 1982 era stato deciso di chiudere definitivamente la centrale perché era diventata antieconomica. Lo smantellamento è iniziato nel 1999 e – se non ci saranno intoppi imprevisti – nel 2026 sarà raggiunto il punto di “brown field” (espressione di gergo che descrive il momento in cui tutte le strutture della centrale sono state smantellate anche se le parti radioattive non sono ancora state necessariamente trasferite in un deposito nucleare).
Quella del Garigliano è stata una delle poche centrali che hanno funzionato in Italia prima che il referendum del 1987 vietasse l’utilizzo dell’energia nucleare. Si tratta di un impianto di piccole dimensioni (circa 150 MW) basato sulla tecnologia BWR (Boiling Water Reactor), costruito in Italia su licenza dell’americana GE – General Electric.
La costruzione della centrale ha richiesto poco meno di 5 anni e l’entrata in funzione è avvenuta nell’estate del 1964. Dopo soli 14 anni di esercizio l’impianto è stato spento perché i costi di manutenzione straordinaria che si sarebbero dovuti affrontare per continuare la produzione di energia elettrica erano risultati troppo onerosi.
Nel 1982 si è deciso di chiudere definitivamente l’impianto e nel 1999 l’impianto è stato traferito a Sogin società incaricata dello smantellamento finale (“decommissioning” nel gergo industriale) e del ripristino ambientale dell’aerea che ospita la centrale. Le prime operazioni hanno riguardato i combustibili nucleari che sono stati inviati all’estero per il trattamento finale. Le scorie radioattive residue sono state reimportate in Italia e messe in depositi temporanei, in attesa di trovare una sistemazione definitiva (il famoso Deposito Nazionale per le scorie nucleari che l’Italia deve ancora attivare).
Successivamente è iniziata la demolizione dell’impianto, partendo dalle strutture più esterne (tranne alcune parti che sono state conservate per il loro valore storico-architettonico), procedendo progressivamente verso il “cuore” del reattore. Il problema principale è che – man mano che ci si avvicina alla zona dove avveniva il processo di fissione – i materiali utilizzati per la costruzione della centrale possono essere diventati radioattivi a causa delle reazioni nucleari indotte dal bombardamento neutronico a cui sono stati esposti.
La notizia arrivata oggi è molto importante perché finalmente siamo arrivati allo smontaggio del cosiddetto “vessel” ovvero del recipiente che circondava la barre di combustibile radioattivo.
Secondo i piani di Sogin entro il 2026 si dovrebbe arrivare alla cosiddetta fase di “brown field” termine che in gergo indica il momento nel quale tutte le componenti della centrale sono state smantellate (ma le parti radioattive non sono ancora state necessariamente smaltite in un deposito nucleare).
Nel corso della sua breve esistenza la centrale nucleare del Garigliano ha prodotto complessivamente circa 12,5 miliardi di kWh (ai costi attuali parliamo di un valore pari a poco più di 1 miliardo di Euro). Secondo le stime di Sogin serviranno 360 milioni di Euro solo per smantellarla fino alla fase di brown field. Questa è solo una piccola parte dei costi perché – per valutare il costo complessivo durante l’intero ciclo di esistenza – andrebbero aggiunti i costi (attualizzati) sostenuti per la costruzione della centrale, per il pagamento della licenza a GE, per la gestione dell’impianto durante i 14 anni di esercizio, per l’acquisto del combustibile nucleare e per lo smaltimento delle scorie radioattive.
Non sono in grado di fornirvi cifre precise per tutte le voci di bilancio, ma è abbastanza evidente che i kWh prodotti dalla centrale del Garigliano hanno avuto un costo stratosferico.
Il caso di questa piccola centrale italiana non può essere generalizzato perché si tratta di un impianto risalente a più di mezzo secolo fa, certamente non ottimizzato in termini di durata e costi. Tuttavia vale la pena di notare che:
- I lavori di smantellamento di una centrale nucleare al termine della sua vita operativa possono essere estremamente lunghi e costosi.
- Quando si fanno le stime del costo dell’energia elettrica prodotta da una centrale nucleare bisogna fare un calcolo completo che tenga conto di tutti i fattori, partendo dal momento della progettazione dell’impianto fino al suo smantellamento finale, considerando inoltre i costi per lo smaltimento delle scorie nucleari.
- Alla fine, il costo per il funzionamento ordinario di una centrale nucleare incide in percentuale limitata sul costo finale dell’energia elettrica prodotta dall’impianto (per una centrale moderna parliamo del 10% circa).
Potremmo dire che il caso della centrale nucleare del Garigliano è stato particolarmente sfortunato, tale da poter essere citato nei manuali di economia come tipico esempio di un investimento da non fare.
Quella nucleare è una tecnologia particolarmente onerosa dal punto di vista dell’investimento iniziale e può produrre un ritorno solo se la centrale è in grado di produrre energia elettrica per molte decine di anni, senza che siano necessari costosi investimenti per la manutenzione ordinaria e straordinaria dell’impianto.
In un recente intervento alla commissione Bilancio della Camera il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, parlando del superbonus, ha dichiarato: “è come una centrale nucleare, continua ad avere effetti che ancora non riusciamo a gestire”. Io non sarei così pessimista, ma se ha usato questa metafora vuol dire che il Ministro ha ben chiari quali siano i rischi a lungo termine di un eventuale futuro investimento nel settore dell’energia nucleare.
Coloro che parlano con una certa superficialità dell’energia nucleare come di una sorgente energetica comunque e sempre “a basso costo” o non sono abbastanza informati oppure mentono sapendo di mentire.
Questo è il terzo di una serie di post dedicati al possibile futuro dell’energia nucleare In Italia. Gli altri post sono:
I: le tecnologie per la produzione di energia elettrica
II: da dove arriva il “combustibile” necessario per far funzionare le centrali?
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