Negli anni ‘70, quando ero un giovane fisico all’inizio della carriera accademica, si discuteva già del possibile utilizzo della fusione nucleare per la produzione di quantità pressoché illimitate di energia, priva di scorie radioattive. Da allora è passato mezzo secolo, ma l’obiettivo sembra essere ancora lontano.
La fusione nucleare è il processo che genera l’energia del Sole e delle altre stelle, ma la sua prima applicazione fu – come spesso accade – militare. Era il novembre 1952 quando gli Stati Uniti sperimentarono la prima bomba all’idrogeno, seguiti – 3 anni dopo – dall’Unione Sovietica.
Negli anni ‘70 i ricercatori di tutto il mondo iniziarono a cercare il modo di “imbrigliare” l’energia sprigionata dai processi di fusione nucleare, ripetendo quello che era stato fatto con le centrali nucleari a fissione rispetto alla bomba atomica. Allora molti erano convinti del fatto che “entro 30 anni si potrà costruire la prima centrale a fusione nucleare”.
50 anni dopo, gli esperimenti fatti presso il Joint European Torus (JET) sono riusciti a produrre una certa quantità di energia da fusione pur operando per un periodo di tempo estremamente limitato (solo 5 secondi). Questo risultato ha riacceso le speranze e molti esperti hanno annunciato che “entro 30 anni si potrà costruire la prima centrale a fusione nucleare”.
Il tempo passa ed il traguardo finale si sposta sempre 30 anni più avanti, un po’ come la finta lepre nelle corse dei levrieri.
Oggi sarà finalmente la volta buona?
Salto a piè pari i dettagli relativi ai principi di funzionamento ed ai problemi da risolvere per costruire una centrale a fusione nucleare (chi fosse interessato ad approfondire questi aspetti può consultare, ad esempio, il tutorial presente nel sito di EUROfusion oppure il sito di RFX, il consorzio italiano guidato dal CNR che raccoglie una parte importante delle competenze italiane nel settore della fusione).
Durante gli ultimi 50 anni sono stati fatti molti progressi che, da una parte, hanno permesso di comprendere meglio i fenomeni fisici che avvengono all’interno dei sistemi dedicati alla fusione nucleare e, dall’altra, hanno consentito di sviluppare le sofisticate tecnologie che servono per riscaldare e confinare il plasma nel quale viene indotta la fusione.
Oggi, dati sperimentali alla mano, non c’è ancora la dimostrazione definitiva che il metodo della fusione nucleare possa effettivamente essere utilizzato per la produzione di energia in modo competitivo.
Ci sono ancora molti problemi tecnologici da risolvere e gli investimenti da fare sono così alti da essere fuori dalla portata di un singolo Stato. Fortunatamente, almeno in questo settore, l’Europa è riuscita a lavorare in modo unitario e questa collaborazione ha consentito di raccogliere le risorse umane e finanziarie necessarie per poter esercitare una leadership riconosciuta a livello internazionale.
Attualmente l’Europa è impegnata nello sviluppo di 2 nuovi grandi progetti che dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) trasformare la fusione nucleare da una curiosità di laboratorio in una fonte energetica affidabile ed economica.
Mi riferisco in particolare ad ITER, il progetto destinato a dimostrare definitivamente la fattibilità del metodo della fusione per produrre energia (gli impianti devono assorbire una grande quantità di energia iniziale e, per essere redditizi, devono restituire molta più energia di quella che assorbono per funzionare) ed il progetto DEMO il cui obiettivo è la costruzione del primo prototipo di una centrale elettrica alimentata dalla energia di fusione.
La recente crisi energetica e la lezione del metano russo dovrebbero aver fatto capire ai decisori politici di tutta Europa che – aldilà dei problemi ambientali – la ricerca di fonti energetiche che ci liberino dalla dipendenza da fornitori esteri è un passo fondamentale per tutelare la sovranità europea. Questo mi fa ben sperare sul fatto che, d’ora in avanti, l’Europa moltiplichi i suoi sforzi per sviluppare i progetti dedicati alla fusione.
Dal punto di vista ambientale, l’ampia disponibilità di energia da fusione sarebbe un toccasana per limitare le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera (l’energia che si ottiene dalla fusione nucleare di 1 grammo di deuterio equivale a quella liberata bruciando circa 30 tonnellate di carbone). Una centrale a fusione nucleare non emette CO2 durante il funzionamento e non produce scorie radioattive. Le centrali a fusione potrebbero cambiare radicalmente lo scenario energetico della seconda metà di questo secolo, anche se arriveranno comunque troppo tardi per cercare di mettere sotto controllo le emissioni di CO2 entro il 2050.
Purché – ovviamente – nel 2050 non ci vogliano ancora altri 30 anni prima di sperare di vedere l’entrata in funzione di tali centrali …
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