Visioni: che fare se non riusciremo a fermare il riscaldamento globale?

Quali azioni si possono intraprendere nel caso in cui la limitazione dei gas serra dovesse fallire o comunque non fosse sufficiente per limitare l’aumento della temperatura superficiale globale? Alcuni scienziati stanno studiando cosa fare nel caso in cui si verifichi una vera e propria emergenza planetaria.

Sappiamo che la quantità di energia solare che raggiunge la Terra è circa diecimila volte superiore rispetto a tutta l’energia utilizzata dall’umanità nel suo complesso. Quindi la temperatura globale della Terra dipende solo dall’equilibrio tra il flusso di energia entrante proveniente dal Sole ed il flusso di energia uscente legato alla radiazione infrarossa emessa dalla Terra.

Il riscaldamento globale in atto dimostra che i 2 flussi non sono bilanciati: è stato calcolato che per riportarli in equilibrio bisognerebbe ridurre di circa il 2% l’energia proveniente dal Sole. In tal modo, la temperatura globale della Terra verrebbe stabilizzata.

Sono state fatte diverse proposte per intervenire sulla radiazione solare in arrivo sulla superficie terrestre.

Alcune proposte nascono dall’osservazione che le forti eruzioni vulcaniche possono produrre, almeno su brevi periodi (fino a 2-3 anni), un significativo abbassamento delle temperature registrate al suolo. Tale fenomeno è dovuto ad un temporaneo aumento dell’albedo collegato alle emissioni di gas che accompagnano le eruzioni [A. Tobock, “Volcanic eruptions and climate“, Rev. Geophys. 38, 191–219 (2000)].

Tuttavia l’idea di spargere nell’atmosfera ingenti quantità di prodotti chimici che inducano fenomeni simili a quelli provocati dalle emissioni vulcaniche suscita enormi perplessità. Parliamo infatti di milioni di tonnellate di composti solforati che – ogni anno – dovrebbero essere liberati nell’alta atmosfera (altro che le fantomatiche scie chimiche!). Un tale intervento potrebbe provocare all’ecosistema danni imprevedibili, ancora più gravi rispetto a quelli causati dal riscaldamento globale.

Una idea alternativa, apparentemente molto semplice anche se – come vedremo – di difficilissima attuazione, fu proposta da Roger Angel nel 2006 [R. Angel, “Feasibility of cooling the Earth with a cloud of small spacecraft near the inner Lagrange point (L1)“, PNAS 103-46 (2006)]. Il progetto di Angel rappresenta l’evoluzione di una idea originale di J. T. Early apparsa nel 1989 sul Journal of the British Interplanetary Society.

In pratica, Angel propose di realizzare un grande filtro solare da posizionare tra la Terra ed il Sole, nel punto di Lagrange L1.

Per chi non ha dimestichezza con i temi dell’astronomia, ricordo che un punto di Lagrange è una delle 5 posizioni nelle quali le forze di attrazione gravitazionale esercitate da Terra e Sole su un terzo corpo di dimensioni ridotte si bilanciano. Ciascuna di queste posizioni è indicata con una sigla che va da L1 fino ad L5. I primi 3 punti (L1-L3) sono punti di equilibrio instabile (se un corpo posto in uno di questi punti si sposta leggermente tende ad allontanarsi indefinitamente), mentre gli altri 2 punti (L4 ed L5) sono di equilibrio stabile (ed infatti proprio qui sono stati osservati i primi asteroidi “troiani della Terra).

Il nuovo straordinario osservatorio spaziale James Webb è stato posizionato nel punto di Lagrange L2. Il punto di Lagrange L1 è l’unico che si trova tra il centro della Terra ed il centro del Sole ed attualmente è utilizzato dai satelliti dedicati all’osservazione solare.

Poiché L1, L2 ed L3 sono punti di equilibrio instabile, qualsiasi oggetto spaziale posizionato in uno di tali punti deve essere dotato di un sistema di stabilizzazione della posizione in grado di correggere piccoli spostamenti accidentali e – per i corpi dotati di una grande superficie – l’effetto sistematico prodotto dalla cosiddetta “pressione di radiazione” esercitata dalla radiazione solare. In pratica questo implica che la posizione ottimale del filtro sia un po’ più vicina al Sole rispetto al punto di Lagrange L1.

Fin qui tutto bene, ma se qualcuno si prende la briga di calcolare l’area e la massa dell’ipotetico filtro da frapporre tra Terra e Sole si vede facilmente che l’applicabilità dell’idea appare alquanto discutibile. Parliamo infatti di un’area pari ad alcuni milioni di km2 (in pratica, quasi la superficie del Brasile) a cui corrisponde una massa dell’ordine di centinaia di milioni di tonnellate. Decisamente troppo anche per i più fantasiosi che avevano ipotizzato di usare un cantiere lunare per lo sviluppo del progetto.

L’idea di Angel sembrava seppellita per sempre nell’archivio delle proposte “belle e impossibili“, ma – recentemente – è stata ripresa da un gruppo multidisciplinare del Massachusetts Institue of Technology (MIT) guidato dall’italiano Carlo Ratti, un famoso architetto e urbanista, noto per i suoi progetti caratterizzati da un grande livello di innovazione.

L’idea del MIT è quella di costruire il filtro solare proposto da Angel producendo e assemblando, direttamente nello spazio, delle bolle di silicio estremamente sottili, poste una vicina all’altra. In tal modo si potrebbe ridurre drasticamente la massa del filtro (si stima che potrebbe avere una densità pari a circa 1 gr/m2). Parliamo di numeri che, se rapportati alle dimensioni complessive del filtro, sono ancora enormi, anche se decisamente inferiori rispetto alle stime che Angel fece sulla base delle tecnologie disponibili 20 anni fa.

Una visione pittorica del filtro a bolle posto tra la Terra e il Sole (Crediti: immagine MIT, Senseable City Lab)

Il filtro proposto dal MIT avrebbe il vantaggio di essere modulare e – se necessario – potrebbe essere smantellato facilmente, senza produrre una quantità ingestibile di detriti spaziali.

In questo momento è difficile dire se la proposta del MIT sia solo una brillante provocazione, oppure se possa aprire la strada verso progetti più credibili (in particolare non è chiaro come Ratti e collaboratori intendano affrontare il problema del controllo della posizione del loro filtro solare “a bolle“).

Il problema è aperto, ma c’è tempo per risolverlo anche perché – come ho scritto all’inizio di questo post – non siamo ancora ridotti così male da dover pensare ad interventi di ingegneria globale entro tempi brevi.

Consola comunque il fatto che ci sia qualcuno che sta pensando a come affrontare gli scenari peggiori che si potrebbero materializzare nella seconda metà di questo secolo.

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