L’espressione inglese “greenwashing” viene utilizzata per indicare tutte le “strategie di comunicazione o di marketing perseguite da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale e/o climatico negativo“.
Il caso forse più clamoroso è quello di DWS (gruppo Deutsche Bank), una delle più grandi società che si occupano di gestioni patrimoniali al mondo, il cui vertice è stato azzerato nello scorso mese di giugno a causa delle accuse di greenwashing finanziario.
Molti clienti, sia per motivi etici che sulla base di ragionamenti economici di medio-lungo periodo, chiedono sempre più di investire i loro capitali in aziende “sostenibili“. Oggi nessuna persona di buon senso acquisterebbe azioni di miniere di carbone pensando di fare un investimento per i propri figli o nipoti. La richiesta di prodotti finanziari amici del clima cresce e, se non ce ne sono abbastanza per soddisfare tutta la domanda, se ne inventano di nuovi dipingendo di “verde” prodotti che sostenibili non sono.
Per cercare di mettere ordine in questa giungla è stata sviluppata la valutazione ESG (Environmental, Social, Governance) che individua i criteri necessari per valutare un’azienda tenendo conto del rispetto dell’ambiente e dell’impatto sul clima (ad esempio, il carico di emissioni di gas serra provocato dalle sue produzioni e le azioni fatte per ridurlo). Vengono valutate anche la ricaduta sociale delle attività aziendali (Social) e la trasparenza ed il rispetto dei principi etici da parte di chi governa l’azienda (Governance). Anche se non c’è ancora uno standard comune accettato a livello internazionale, si tratta comunque di un importante passo in avanti per comprendere l’effettiva sostenibilità delle imprese.
C’è un dato che ci fa capire come questo tipo di valutazioni stia impattando sui mercati finanziari. Nella figura seguente viene riportata la frazione di prodotti ESG presenti nel mercato mondiale degli ETF (Exchange Traded Fund, uno strumento finanziario che sta acquistando una crescente popolarità tra i risparmiatori in alternativa ai più noti fondi di investimento):
Sembra che tutti abbiano improvvisamente compreso l’importanza di investire i loro soldi in aziende che siano, tra l’altro, rispettose del clima. Succede però che talvolta qualche consulente finanziario infedele faccia un bel “pacchetto” di azioni di miniere di carbone, lo confezioni con un bel fiocco verde e provi a venderlo.
Lasciando il mondo della finanza, ha suscitato un certo clamore nel gennaio del 2020 la sentenza dell’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato (AGCM, chiamata informalmente Antitrust) con la quale ENI è stato condannato per pubblicità ingannevole avendo spacciato come “green” il gasolio che utilizzava come componente bio i derivati dell’olio di palma (quello che è stato tolto dai biscotti dopo una martellante campagna di stampa). La sentenza è stata confermata dal TAR del Lazio nel novembre 2021.
Invece di riciclare scarti di origine agricola o l’olio di frittura usato (incluso quello che molti di noi portano nei centri per il recupero dei materiali), ENI trovava più conveniente importare l’olio di palma vergine, ricavandone il biodiesel che veniva miscelato con la componente estratta dal petrolio. Peccato che per produrre quell’olio siano state distrutte immense foreste tropicali, con grave danno per l’ambiente, il clima e la biodiversità.
Va detto che dopo la batosta giudiziaria (ed il conseguente danno di immagine) ENI ha cambiato la sua politica, impegnandosi ad eliminare completamente l’uso di oli vegetali vergini entro il 2023. Mi sembra un buon esempio di come il contrasto al greenwashing basato su dati scientifici inoppugnabili possa dare buoni frutti.
Si potrebbero fare tanti altri esempi, ma mi fermo qui perché non sarebbe giusto far intendere che tutte le dichiarazioni di rispetto dell’ambiente e del clima fatte dalle aziende debbano essere considerate – a priori – come false. C’è comunque da tenere presente che gli uffici del marketing mostrano una certa tendenza ad “inverdire la pillola“.
La risposta ai tentativi di greenwashing non può che essere basata su una attenta verifica scientifica delle affermazioni fatte dalle aziende, partendo da una analisi dettagliata dei dati, senza pregiudizi di carattere ideologico.
Idealmente ci vorrebbe anche una legislazione più severa per punire coloro che affermano il falso (o almeno dovremmo far funzionare meglio la legislazione che già c’è). Sarebbe senz’altro utile aumentare il valore massimo delle ammende che l’AGCM può comminare. Attualmente la multa massima è pari a 5 milioni di Euro, una bazzecola per le grandi aziende con fatturati miliardari.
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