Il procedimento giudiziario avviato per far luce sulla mancata attivazione della zona rossa in alcuni comuni lombardi ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica i tragici avvenimenti di 3 anni fa. I processi non si fanno sulla stampa e neanche sui blog: eviterò quindi di esprimere qualsiasi opinione sulle eventuali responsabilità penali di singole persone. Aldilà degli aspetti giudiziari, emerge comunque un quadro di grande impreparazione che dovrebbe essere di monito per il futuro. Prima o poi ci sarà una nuova pandemia. Cerchiamo di non archiviare la Covid-19 come un evento drammatico da dimenticare al più presto possibile e facciamo tesoro di ciò che abbiamo imparato per migliorare il nostro approccio alle future pandemie.
La tremenda pandemia di Covid-19 non è stata la prima e non sarà certamente l’ultima nella storia dell’Umanità. Rispetto a quanto è successo nei secoli precedenti, questa è stata la prima pandemia affrontata utilizzando i potenti strumenti della genetica (sappiamo tutto sul SARS-CoV-2 e sulle sue numerose varianti virali) ed i vaccini che sono stati sviluppati in tempi molto brevi grazie alle nuove biotecnologie. Le altre differenze macroscopiche sono legate alla stretta interconnessione che ha considerevolmente incrementato la velocità con cui il virus si è diffuso a livello planetario ed il ruolo delle reti globali di informazione che ci hanno fatto vivere – in tempo quasi reale – eventi che un tempo sarebbero rimasti sconosciuti ai più.
Aldilà delle differenze, rimangono alcuni punti di straordinaria continuità con le pandemie del passato: la paura ed il senso di smarrimento che tutti noi provammo di fronte ad un virus sconosciuto e potenzialmente letale, la tendenza ad isolarci dagli altri per sfuggire al pericolo del contagio e gli atteggiamenti antiscientifici che hanno attecchito tra frange minoritarie della popolazione decise a rifiutare i vaccini moderni, ma pronte a curarsi con improbabili quanto inefficaci farmaci più o meno “miracolosi”.
Il procedimento giudiziario avviato dalla Procura di Bergamo si prefigge di verificare se ci siano state colpe nell’adozione delle decisioni che hanno ritardato l’istituzione della zona rossa in alcuni comuni lombardi durante i primissimi giorni della pandemia.
Non ho le competenze di natura giuridica che sarebbero necessarie per esprimere un parere e – aldilà delle anticipazioni centellinate dalla stampa – non ho una sufficiente conoscenza dei fatti. Ciò premesso, credo che – almeno a livello generale – sia comunque possibile esprimere qualche osservazione:
- La pandemia di Covid-19 ci ha colto assolutamente di sorpresa e questo vale anche per coloro che avrebbero dovuto svolgere una adeguata opera di prevenzione. Nessuno si illude che se fossimo stati meglio preparati la pandemia non avrebbe prodotto gravi danni, ma è ragionevole ritenere che avremmo potuto evitare alcune delle situazioni più critiche (ad esempio, la grave carenza di respiratori, kit diagnostici e dei più elementari presidi di protezione individuale che – nella fase iniziale della pandemia – mancavano anche al personale medico-infermieristico più esposto al rischio del contagio).
- Anche l’Istituto Superiore di Sanità che avrebbe dovuto costituire il “centro di comando” della lotta alla pandemia si è fatto cogliere impreparato. A differenza di quanto avviene in altri Paesi come, ad esempio, la Germania, l’Italia non ha una istituzione di livello internazionale dedicata specificamente alla lotta contro le malattie infettive. Il tema è coperto solo da una piccola sezione all’interno dell’Istituto Superiore di Sanità. Nei primi giorni della pandemia c’è stata una affannosa ricerca di esperti esterni chiamati a far parte del comitato tecnico scientifico incaricato di esprimere pareri sulla gestione della pandemia e non mi pare che la scelta dei componenti sia stata sempre perfettamente azzeccata. Nei miei post passati ho segnalato più volte quella – che a mio parere – è stata una lettura distorta dei dati, a cominciare dal falso valore predittivo attribuito all’indice di riproduzione del contagio Rt e dall’uso distorto di tale indicatore.
- Talvolta ci sono stati casi di palese inadeguatezza che hanno riguardato alcuni alti funzionari della Sanità pubblica, sia a livello centrale che regionale. Non si può fare di ogni erba un fascio e sarebbe sbagliato generalizzare gettando discredito su una intera categoria. Guidare le strutture sanitarie – soprattutto durante i primi mesi della pandemia – è stato un compito estremamente difficile, ma alcuni funzionari si sono dimostrati davvero impreparati dal punto di vista scientifico. Questa considerazione deve essere di monito rispetto alla pessima abitudine di asservire le carriere degli alti funzionari della Sanità pubblica a scelte di natura sostanzialmente politica. Quando la fedeltà fa premio sulla competenza si pongono le basi per il disastro.
- Fin da subito è apparso chiaro che – se non si poteva evitare che il contagio si diffondesse – bisognava almeno impedire che il processo procedesse troppo rapidamente, mettendo in grave difficoltà le strutture ospedaliere. Il modello ospedale-centrico adottato da alcune Regioni italiane ha mostrato i suoi limiti e a tutti è apparsa evidente l’importanza di un sistema di assistenza dei malati diffuso sul territorio. Tre anni fa molti hanno ragionato su questo tema, ma oggi – a pericolo ormai quasi svanito – c’è il rischio che tutto ritorni come prima e che i buoni propositi sulla medicina territoriale diventino lettera morta.
- Il tema della salvaguardia degli ospedali (che devono essere in grado di curare tutte le patologie e non solo la Covid-19) è tornato di attualità nel corso degli ultimi 3 anni in coincidenza con il susseguirsi dei principali picchi pandemici. Alla fine, quello legato all’occupazione dei reparti Covid (ed in particolare dei reparti di terapia intensiva) si è dimostrato come l’indicatore più “robusto” per monitorare l’effettiva diffusione della pandemia. Anche chi barava al ribasso sul numero dei contagi si è ritrovato con gli ospedali saturi
- Una considerazione particolare riguarda i cosiddetti “esperti” che fin da subito hanno innescato una sorta di pandemia mediatica. Ci sono stati casi di vera e propria bulimia comunicativa e spesso abbiamo assistito a confronti – anche aspri – che invece di avvenire nelle sedi scientifiche opportune hanno alimentato i dibattiti dei talk show televisivi. Questo comportamento – oltre ad essere scorretto dal punto di vista deontologico – ha alimentato confusione ed ansia tra il grande pubblico, aumentando il senso di disorientamento.
- Come scrissi 3 anni fa, all’inizio della pandemia: “oggi nessuno può definirsi rigorosamente esperto perché l’esperienza sulla Covid-19 la acquisiremo nel corso dei prossimi mesi/anni. Solo quando la pandemia si sarà esaurita potremo sperare che si sia formata una generazione di scienziati veramente “esperti” che possa tramandare alle future generazioni l’esperienza acquisita”. Oggi mi sento di confermare l’opinione espressa 3 anni fa. Abbiamo imparato molto sul SARS-CoV-2 ed è ragionevole pensare che nei prossimi anni ci saranno ancora importanti avanzamenti riguardo ai vaccini ed ai farmaci che possono essere utilizzati per combattere la Covid-19 e patologie similari. Gli scienziati veri hanno dedicato gli ultimi 3 anni ad approfondire i temi legati alla Covid-19 e non si sono fatti spingere dalla vanità personale per cercare facili (e ben remunerate) soddisfazioni televisive.
- Guardando in retrospettiva a ciò che è accaduto nel corso degli ultimi 3 anni è inutile – a mio parere – giudicare le cose con il “senno di poi”. Fatalmente nella fase più critica di una pandemia c’era un rischio elevato di commettere gravi errori, soprattutto se si guardavano le cose da un punto di vista complessivo e – oltre a tener conto del parere degli scienziati – si dovevano fare anche valutazioni di natura socio-economica. La recente esperienza cinese dimostra che sottoponendo la popolazione ad un controllo rigidissimo si può limitare (ma non escludere completamente) la diffusione del contagio. Ad un certo punto però i benefici sanitari diventano trascurabili rispetto ai danni di natura socio-economica provocati dalle restrizioni sanitarie ed anche la Cina, alla fine, ha dovuto prendere atto di questo problema. Oggi tutto questo ci è molto chiaro, ma – all’inizio della pandemia – non era così.
- I decisori politici che sono stati chiamati a definire le strategie anti-Covid hanno dovuto agire – almeno nel primo periodo della pandemia – senza poter disporre di un consolidato sostegno di natura scientifica. Oggi possiamo anche tirare fuori dai cassetti qualche studio che li metteva in guardia rispetto ai gravi pericoli della pandemia, ma non possiamo dimenticare che gli stessi studi hanno talvolta disegnato (ad esempio per l’estate 2020) scenari catastrofici che – fortunatamente – non si sono avverati. Scrivo questo per amor di verità perché leggendo i giornali sembra che già nei primi momenti della pandemia tutto fosse chiaro e che certe prese di posizione sbagliate siano colpa solo dell’ignavia di taluni decisori. Ciò non toglie che alcuni di loro fossero degli autentici incapaci. Se questo fatto abbia rilevanza penale lo decideranno i giudici. Temo però che se tale principio fosse applicato in modo estensivo, dovremmo pensare ad un rapido programma di ampliamento delle patrie galere.
In conclusione, comprendere cosa non abbia funzionato nelle fasi più acute della pandemia probabilmente non avrà conseguenze sul piano penale per chi ha sbagliato (a meno che i giudici non rilevino situazioni di colpa particolarmente grave), ma servirà comunque per capire quali sono state le cause degli errori e, auspicabilmente, potrà essere d’aiuto per non ripetere gli stessi errori quando – prima o poi – ci sarà una nuova pandemia.
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