Un articolo apparso recentemente su una rivista minore (iScience che con Science con c’entra proprio nulla) enfatizza il ruolo della genetica nella risposta alla Covid-19. Lo studio si basa sulle analisi genetiche fatte ad un migliaio di abitanti delle valli bergamasche, zona divenuta drammaticamente famosa per il gravissimo impatto di casi gravi e decessi registrato durante la fase iniziale della pandemia. Lo studio mette in evidenza il ruolo giocato da alcuni geni trasmessi da lontani antenati appartenenti all’uomo di Neanderthal. L’articolo è stato ampiamente pubblicizzato dalla Regione Lombardia.
I giornali e le televisioni italiane hanno dato un ampio risalto ad un articolo apparso recentemente su iScience dove si mettono in evidenza alcune componenti genetiche che esalterebbero la comparsa di sintomi gravi in caso di contagio da SARS-CoV-2. Lo studio analizza circa 1.200 soggetti abitanti nella valli bergamasche, zona che ha visto una fortissima incidenza di contagi gravi e decessi durante la fase iniziale della pandemia.
L’immagine notturna dei camion militari che portavano via da Bergamo le salme dei morti da Covid-19 sono rimaste nella memoria di tutti noi. Così come ci ricordiamo delle polemiche e degli strascichi giudiziari legati alla mancata decisione di stabilire nelle valli bergamasche una zona rossa per cercare di rallentare l’espansione iniziale del contagio.
Tutto questo sembra ormai “acqua passata” e ieri in Regione Lombardia l’articolo apparso su iScience è stato presentato in pompa magna. Il messaggio mediatico è stato piuttosto chiaro: se ci sono stati tanti morti e tante sofferenze le colpe non sono da attribuire alla incapacità della politica che non ha assunto le decisioni necessarie o alle carenze del sistema sanitario. La particolare composizione genetica delle popolazioni sarebbe stata la responsabile della gravità dei contagi.
La genetica sarebbe l’unica vera colpevole, mentre politici e alti dirigenti della Sanità si auto-assolvono.
Sul fatto che la risposta alla Covid-19 possa dipendere anche da fattori genetici (oltre che da età, genere e stato generale di salute del paziente) c’è un ampio consenso, ma quando si va a vedere come stanno le cose in dettaglio il dibattito diventa piuttosto articolato. In particolare, una volta individuata la lista dei geni che possono avere un qualche tipo di ruolo per aumentare la probabilità di contagio o la gravità della malattia, è sempre molto difficile capire quale sia il ruolo specifico di ogni singolo gene.
L’idea che l’eredità genetica dell’uomo di Neanderthal possa aumentare la possibilità di contrarre forme gravi di Covid-19 non è affatto una novità. In un articolo pubblicato su Nature nel settembre del 2020 Svante Pääbo (premio Nobel per la medicina nel 2022) avanzava proprio questa ipotesi.
Mediamente in Europa circa il 7% della popolazione è dotata di questo patrimonio genetico. Solo se si dimostrasse che la presenza di tali geni nelle valli bergamasche è decisamente superiore rispetto alla media europea si potrebbe concludere che i fattori genetici sono stati determinanti per causare le fortissime criticità riscontrati a Bergamo e dintorni durante le fasi iniziali della pandemia.
In realtà, andando a leggere l’articolo pubblicato su iScience si capisce che le conclusioni dello studio non sono così tranchant. Innanzitutto va detto che lo studio non dice nulla sulla frequenza della presenza di geni legati all’uomo di Neanderthal tra le popolazioni delle valli bergamasche. Lo studio ha riguardato un campione numericamente limitato (circa 1.200 persone di cui meno di 400 aveva sperimentato sintomi gravi, ma non comprende nessuno di coloro che sono deceduti a causa della Covid-19). La partecipazione allo studio è avvenuta su base volontaria e quindi non si può sostenere che il campione sia pienamente rappresentativo della popolazione.
In pratica, la pubblicazione presentata come “risolutiva” da parte dei vertici della Regione Lombardia si limita a confermare cose già note (maggiore predisposizione verso i casi più gravi di chi ha un certo patrimonio genetico legato all’uomo di Neanderthal), ma non fornisce motivazioni convincenti per capire come mai le valli bergamasche hanno sperimentato una fase iniziale della pandemia particolarmente drammatica.
Tra l’altro, gli Autori dimenticano di spiegarci come mai l’elevata incidenza di casi gravi sia stata riscontrata solo durante le primissime settimane della pandemia. Se ci fosse stata una predisposizione genetica particolarmente forte, non si capisce cosa avrebbe protetto le popolazioni bergamasche durante le successive ondate pandemiche che si sono susseguite dall’autunno del 2020 in poi. Certamente i forti contagi iniziali hanno indotto nelle valli bergamasche un certo livello di immunità, ma non certo una immunità di gruppo che potesse proteggere le popolazioni da futuri contagi.
Se si fosse istituita per tempo una zona rossa e se fossero stati presi provvedimenti efficaci per identificare ed isolare i contagiati, forse l’evoluzione iniziale della pandemia nelle valli bergamasche sarebbe stata meno violenta e si sarebbero potuti salvare molti cittadini, inclusi coloro che possedevano varianti genetiche ereditate dall’uomo di Neanderthal.
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