Le acque marine contengono una piccolissima quantità di uranio (circa 3 parti per miliardo) disciolto sotto forma di ione uranile (UO22+). Si stima che la quantità di uranio complessivamente presente negli oceani ammonti a circa 4,5 miliardi di tonnellate, circa 1.000 volte l’uranio che si trova nelle riserve minerarie terrestri conosciute. Da molto tempo si sta cercando di estrarre l’uranio contenuto nelle acque marine, ma la bassissima concentrazione ha costituito – almeno fino ad oggi – un ostacolo insormontabile. Diversi gruppi di ricerca cinesi stanno lavorando su questo tema e i risultati più recenti sembrano dimostrare che l’idea potrebbe funzionare.
L’acqua del mare è stata usata fin dall’antichità per ricavare il cloruro di sodio (più noto come sale da cucina). In epoca più recente, le saline hanno fornito la materia prima per la produzione di altri composti chimici come, ad esempio, alcuni sali di iodio e di bromo, ma in realtà l’acqua di mare contiene – sia pure a bassa o bassissima concentrazione – moltissimi altri elementi. Tra questi c’è anche l’uranio presente sotto forma di ione uranile (UO22+) alla concentrazione di circa 3,3 ppb (si legge parti per miliardo).
Pur essendo presente in tracce, di uranio nelle acque marine ce n’è davvero tanto: complessivamente circa 4,5 miliardi di tonnellate, circa 1.000 volte l’ammontare di uranio che si stima sia presente nelle riserve minerarie mondiali.
Quando quasi un secolo fa si iniziò ad usare l’uranio come combustibile nucleare molti valutarono l’opportunità di estrarlo dal mare, ma tutti i tentativi fallirono a causa della bassissima concentrazione iniziale e delle interferenze provocate dagli altri ioni metallici presenti nell’acqua marina.
Recentemente l’idea è stata ripresa da alcuni gruppi di ricerca – soprattutto cinesi – che si sono impegnati a sviluppare nuovi sistemi di estrazione. Il concetto fondamentale è quello di utilizzare un processo elettrochimico facendo arrivare gli ioni uranile (UO22+) su un elettrodo negativo nel quale vengono ridotti a UO2, ossido di uranio che è sostanzialmente insolubile e quindi si deposita (precipita) sull’elettrodo.
La base dell’elettrodo è formata da un “tessuto” di fibre di carbonio che consente di ottenere una struttura porosa, ottimizzata rispetto al processo di cattura dell’uranio. Per migliorare la selettività del processo e la velocità di deposizione, l’elettrodo è stato ricoperto da un film di particolari molecole organiche. Il film svolge un ruolo attivo per favorire l’adesione selettiva degli ione uranile ed il loro successivo processo di riduzione.
Secondo quanto riportato in un articolo pubblicato recentemente un elettrodo di carbonio ricoperto da 1 grammo dello speciale film organico è riuscito ad estrarre dall’acqua marina 12,6 mg di uranio nell’arco di 24 giorni. Detto così sembra davvero poca cosa, ma il sistema è ampiamente scalabile: un sistema costituito da molti elettrodi di adeguate dimensioni potrebbe estrarre dall’acqua marina quantità di uranio interessanti.
Lo studio è ancora in una fase iniziale e gli Autori non ci dicono nulla sulla stabilità a lungo termine (oltre la durata di circa 1 mese) del nuovo tipo di elettrodo che hanno sviluppato. Il problema principale è che gli altri ioni metallici presenti nell’acqua marina – pur essendo non affini con il film attivo che ricopre l’elettrodo – potrebbero in tempi più o meno lunghi depositarsi sull’elettrodo stesso producendo quello che in gergo tecnico viene chiamato “avvelenamento“. In tal caso l’efficienza dell’elettrodo calerebbe nel tempo, riducendo drasticamente l’efficienza del processo di cattura.
C’è anche un possibile problema di durata nel tempo del film attivo. L’ambiente marino è particolarmente aggressivo dal punto di vista chimico senza contare che l’acqua marina ospita una miriade di forme di vita, pronte a colonizzare qualsiasi tipo di superficie. Tutto ciò potrebbe portare ad un progressivo degrado dell’elettrodo fino a provocarne un danneggiamento irreversibile.
Pur con i dubbi sulla stabilità a medio-lungo termine che ho appena spiegato, mi pare che comunque il risultato raggiunto dagli Autori faccia intravvedere la concreta possibilità di estrarre uranio dall’acqua marina in un modo economicamente conveniente.
Leggendo l’articolo mi vengono alla mente alcune considerazioni:
- Possiamo archiviare definitivamente il tempo in cui la Cina basava il suo sviluppo copiando pedissequamente ciò che facevano i Paesi tecnologicamente più avanzati. Ormai è in grado di fare ricerca di punta in molti settori avanzati anche se spesso in Occidente culliamo ancora l’idea che la Cina sia solo una fonte di manodopera a buon mercato.
- Il metodo di estrazione dell’uranio dalle acque marine che viene attualmente sviluppato dagli scienziati cinesi non fa uso di materie prime rare e costose. Si tratta di una tecnologia non particolarmente sofisticata alla portata anche di Paesi non ricchi.
- Certamente andrà valutato il possibile impatto sui biosistemi marini perché un impianto di estrazione dell’uranio dovrebbe trattare ogni giorno enormi volumi d’acqua e potrebbe produrre danni ingenti dal punto di vista ecologico. Sappiamo che la Cina non sempre assegna una elevata priorità alle valutazioni di carattere ambientale. Prima di importare a “scatola chiusa” nuove tecnologie dovremmo stare attenti a non generare disastri ambientali per prevenire quelli climatici.
- Se effettivamente si riuscisse a sviluppare un metodo efficace e ambientalmente accettabile per estrarre l’uranio dall’acqua marina salterebbero molti dei paradigmi attuali legati all’uso dell’energia nucleare. Il fatto che le riserve naturali di uranio (quelle minerarie) siano tutto sommato limitate ci consente di dire che è impossibile adottare su scala globale il modello energetico francese (pesantemente basato sull’uso dell’energia nucleare). Non ci sarebbe abbastanza uranio per tutti, ma se l’uranio potessimo ricavarlo anche dal mare le cose potrebbero cambiare drasticamente.
- Se oltre a estrarre l’uranio dal mare diventasse operativo un numero adeguato di centrali di IV generazione (a neutroni veloci) assisteremmo ad un cambio epocale perché oltre a disporre di più uranio potremmo usarlo in modo molto più efficace, riducendo contemporaneamente in modo drastico il problema delle scorie radioattive. In attesa che diventi disponibile l’energia nucleare da fusione, avremmo comunque a disposizione una fonte di energia “carbon-free” continua che potrebbe giocare un ruolo fondamentale per stabilizzare i futuri sistemi energetici destinati a fare un uso sempre più intensivo delle energie rinnovabili.
In conclusione, non mi aspetto che la Cina riuscirà ad estrarre quantità adeguate di uranio dalle acque marine nell’arco del prossimo decennio. Ma la ricerca sta procedendo velocemente e potrebbe riservarci notevoli sorprese.
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